A Roma prende alloggio nella casa di un ricco manicheo a cui era stato raccomandato. “Anche a Roma infatti mi tenevo in contatto con quei falsi santoni. Ero tuttora del parere che non siamo noi a peccare, ma un'altra natura, chissà poi quale, pecca in noi” (Conf. V, 10.18). È ormai una posizione di comodo la sua. In realtà, pur non sperando di trovare più tra loro la verità, non sa più a chi aggrapparsi per cercarla. Comincia a pensare seriamente se per caso non abbiano ragione quei filosofi che negano all'uomo qualsiasi possibilità di raggiungere la verità. "Mi era nata l'idea che i più accorti di tutti i filosofi fossero stati i cosiddetti Accademici, in quanto avevano affermato che bisognava dubitare di ogni cosa, e avevano sentenziato che all'uomo la verità è totalmente inconoscibile" (Conf. V, 10.19). Qual'è il motivo centrale della sua sfiducia? È l'incapacità a comprendere le cose spirituali. I manichei gli avevano insegnato che anche Dio è in qualche modo materiale, e quindi il bene e il male sono ‘cose’, sostanze materiali. Questo modo di pensare, insieme alle critiche manichee alla Bibbia, tenevano Agostino lontano dalla Chiesa cattolica e senza altra via di uscita. “Non speravo più di trovare nella tua chiesa, Signore del cielo e della terra, la verità da cui i manichei mi avevano allontanato. Mi sembrava sconveniente credere che tu hai la figura della carne umana e sei circoscritto nei limiti materiali delle nostre membra. L'incapacità di pensare, volendo pensare al mio Dio, a cosa diversa da una massa corporea, poiché mi pareva che nulla esistesse senza un corpo, era la suprema e quasi unica ragione del mio inevitabile errore. Esistevano poi le critiche dei manichei alle tue Scritture, che mi sembravano irrefutabili. Eppure a volte avrei desiderato davvero sottoporre alcuni singoli passi a qualche profondo conoscitore dei Libri sacri per sondare la sua opinione. C'era ad esempio un certo Elpidio che soleva discutere pubblicamente proprio con i manichei e che già a Cartagine mi aveva impressionato con i suoi discorsi" (Conf. V, 10.19-20; 11.21). In quegli anni era a Roma Girolamo, segretario di Papa Damaso, che aveva cominciato a far parlare di sé come conoscitore e traduttore in latino delle Scritture. Ma l'ambiente che frequentava il professore di retorica difficilmente poteva metterlo in qualche rapporto col monaco dalmata.
A Roma, non molto dopo il suo arrivo, Agostino si ammala bravamente, tanto da far temere una fine imminente. Egli attribuirà la sua guarigione alla fedeltà di Dio verso sua madre. “A Roma mi accolse il flagello delle sofferenze fisiche, che ben presto m'incamminarono verso gli inferi col fardello di tutte le colpe commesse contro te, contro me e contro il prossimo. Mia madre, pur ignara del mio male, tuttavia pregava, assente, per me; e tu, dovunque presente, dov'era lei l'esaudivi, e dov'ero io t'impietosivi a tal segno di me da farmi ricuperare la salute del corpo" (Conf. V, 9,16).
Guarito, incomincia le sue lezioni di retorica raccogliendo in casa un buon numero di studenti, e si rallegra nel vedere gli studenti romani molto più docili e disciplinati di quelli cartaginesi. Ma scopre ben presto in loro un'altra specie di cattiveria, e più raffinata: "Ebbi la conferma che là non si verificavano i famigerati disordini degli scolari depravati. Tuttavia fui anche avvertito che improvvisamente, per non versare il compenso al proprio maestro, i giovani si coalizzano e si trasferiscono in massa presso altri, tradendo così la buona fede e calpestando la giustizia per amore del denaro. Perciò quando il prefetto di Roma ricevette da Milano la richiesta di un maestro di retorica, con l'offerta anche del viaggio sulle vetture di stato, proprio io brigai per ottenere l'incarico, aiutato da quei manichei da cui la partenza mi avrebbe per sempre liberato. Dopo avermi sottoposto ad una specie di esame di dizione, il prefetto del tempo, Simmaco, m'inviò a Milano" (Conf. V, 12,22).
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