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I primi passi

Agostino di Ippona - Storia di un ritorno

"Si levò il vento, si spiegarono le nostre vele e si sottrasse al nostro sguardo la riva, sulla quale la mattina dopo ella impazzì di dolore e riempì di lamenti e gemiti le Tue orecchie che non se ne curavano...". Così Agostino comincia a raccontare, a metà del quinto libro delle Confessioni, la furtiva partenza dall'Africa alla volta dell'Italia. Quella che rimaneva a piangere abbandonata sulla riva era Monica, sua madre...

Può essere assunto come episodio emblematico. La vita di Agostino fu un continuo andare... Prima fu un allontanarsi da se stesso, dall'educazione della sua infanzia e, come lui credeva, da Dio. Poi fu un ritornare, lento e faticoso, verso la casa del Padre, un rientrare in se stesso per ritrovare la verità e Dio. In realtà per le preghiere e le lacrime di sua madre Monica, Dio non l'aveva mai abbandonato. "Tu eri dentro di me ed io fuori. Tu eri con me, ma io non ero con Te, perché mi tenevano lontano quelle creature che, se non esistessero in Te, non avrebbero esistenza" (Conf. X, 7). Più tardi, ricordando la sua esperienza, raccomanderà: “Non andare fuori, ritorna in te stesso. È nel tuo cuore che abita la verità” (De vera Relig. 39-72).

Ritrovato se stesso e Dio, già uomo maturo e Vescovo, scriverà la storia del suo pellegrinare e canterà i mirabili disegni di Dio nei tredici libri delle Confessioni, da cui attingiamo la maggior parte delle notizie qui riferite. Ma lasciamo che ci parli lui stesso.

“Ignoro donde venni a questa, come chiamarla, vita mortale o morte vitale. Lo ignoro, ma mi accolsero i conforti delle tue misericordie, per quanto mi fu detto dai genitori della mia carne, dall'uno dei quali mi ricavasti, mentre nell'altra mi desti una forma nel tempo" (Conf. I, 6.7).

Agostino nasceva il 13 novembre del 354, in un piccolo paese dell'Africa proconsolare, Tagaste, oggi chiamata Souk-Ahras nell'attuale Algeria. Un piccolo bimbo che sapeva succhiare e bearsi delle gioie o piangere delle noie della sua carne, null'altro. Un bimbo come tanti altri. Che sorrideva, s'innervosiva, niente gli bastava. Già da allora. “Cominciai anche a ridere, prima nel sonno, quindi nella veglia. Così almeno mi fu riferito sul mio conto, e io vi ho creduto, perché vediamo che gli altri bambini si comportano così. Mi dibattevo e strillavo, esprimendo i miei desideri. E se non ero accontentato, o se non mi ero fatto intendere, mi vendicavo strillando contro persone maggiori di me che non si piegavano alla mia volontà, e persone libere che non si facevano mie schiave” (Conf. I, 6.8).

Chissà quando mamma Monica e papà Patrizio avranno detto queste cose. Immagino le sere afose africane, sotto un pergolato: in un momento di quiete, dopo l'agitazione della giornata, Monica e Patrizio raccontavano al piccolo Agostino e ai suoi fratelli la loro breve storia, una storia interrotta da mille domande.

Patrizio era un modesto funzionario del municipio di Tagaste, benestante ma non ricco, pagano per indole ed educazione. Solo alla fine della vita si deciderà a ricevere il battesimo. Agostino lo descrive come “un uomo singolarmente affettuoso, ma altrettanto facile all'ira, e mia madre aveva imparato a non resistergli nei momenti di collera” (Conf. IX,19).

Di questa madre, Monica, che la Chiesa venera come santa, chi non ne ha sentito parlare? In genere la immaginiamo come una donna che piange. E il suo pianto di mamma commuoverà il cuore del figlio ormai grande e maturo che dedicherà a lei, più che un monumento alla sua memoria, tutto il nono libro delle Confessioni. Ma non era debole o pavida: le sue lacrime le versava davanti a Dio. Di fronte al marito e ai figli si dimostra donna saggia, forte, capace di affrontare rischi e pericoli, unicamente preoccupata della loro salvezza. "Mia madre - racconta Agostino - aveva imparato a non resistergli (a Patrizio) nei momenti di collera, non dico con atti, ma neppure a parole. Coglieva invece il momento adatto, quando lo vedeva ormai rabbonito e calmo, per rendergli conto del proprio comportamento se per caso si era comportato a sproposito. Molte altre signore, pur sposate a uomini più miti del suo, portavano segni di botte che ne sfiguravano addirittura l'aspetto. Nelle conversazioni tra amiche deploravano il comportamento dei mariti. Essa invece deplorava la loro lingua. Le amiche sapevano quanto fosse furioso il marito e si stupivano che non portasse alcun segno di percosse da parte di Patrizio e che non li sentissero mai litigare” (Conf. IX, 19).

Questo comportamento sereno, ma fermo, Monica lo avrebbe tenuto anche verso quel figlio prediletto, per il quale ha tanto pianto e trepidato. Scriverà ancora Agostino: "Se le anime dei morti si interessassero ancora degli affari di questo mondo e ci parlassero quando le vediamo in sogno, la mia santa madre non mi abbandonerebbe una sola notte; lei che mi ha seguito per terra e per mare, per vivere sempre con me. Mi riesce difficile credere che la sua felicità l'abbia resa tanto crudele da non consolare nella sua tristezza e nella sua angoscia questo figlio che era il suo amore e che lei non ha mai potuto sopportare di vedere mesto” (De cura pro mortibus gerenda, 16).

Intanto Agostino cresce. Da piccolo bimbo lattante si fa grandicello. È un chiacchierone, che capisce al volo le cose e osserva molto i grandi.

"Ormai non ero più un bambino senza parola, ma un fanciullo chiacchierone. Me lo ricordo bene. Non mi insegnarono a parlare gli anziani con un insegnamento metodico, ma fui io stesso il mio maestro con l'intelligenza avuta da Te, mio Dio" (Conf. I,8).

E giunge il momento della scuola che pone limiti ben precisi alla sua gioia di sperimentare tutto e conoscere ogni cosa. E Agostino non ama la scuola come non l'ama nessun bambino che vuol essere libero di giocare e scorazzare con gli amici. “Fui affidato alla scuola per impararvi le lettere di cui, meschino, non capivo i vantaggi. Eppure le buscavo, se ero pigro a studiare. Non che difettasse, Signore, la memoria o l'intelligenza: tu me ne volesti dotare a sufficienza per quell'età. Ma mi piaceva il gioco. Amavo le vittorie esaltanti nelle gare e lo strisciare di favole irreali nelle mie orecchie, che vi eccitava un più ardente prurito. Non amavo lo studio e odiavo esservi costretto. Vi ero però costretto, e per il mio bene, ma io non compivo del bene, perché non avrei studiato senza costrizione" (Conf. I, 14).

Dal suo ambiente di casa e di scuola è spinto sulla via della vanità. La cosa più importante della vita sembrava essere il saper parlare bene per ricevere applausi. E anche nel gioco cerca di essere il primo, il più bravo. La scuola non lo aiuta certo ad essere diverso: le favole frivole e oscene dei poeti pagani eccitano il suo carattere vanitoso e passionale. "Io peccavo da fanciullo nell'amare la vuotezza dei poeti. La mettevo prima delle arti più utili che odiavo. `Uno più uno due' era per me una odiosa cantilena, mentre era spettacolo dolcissimo, eppure vano, il cavallo di legno e l'incendio di Troia. Ero definito un ragazzo di belle speranze perché mi piacevano queste cose. Eravamo costretti a perderci sulle orme delle invenzioni poetiche, riferendo in prosa quanto il poeta aveva scritto in versi; e i maggiori elogi nella dizione toccavano a chi esprimeva sentimenti di ira o di sdegno più adatti al personaggio rappresentato e a chi rivestiva i concetti di parole più convenienti... " (Conf. I, 19).

Si comprende benissimo che non gli piacesse il greco, il cui studio richiedeva disciplina e applicazione. Ma Agostino dice di non capirne il motivo. "Quale fosse poi la ragione per cui odiavo il greco che mi veniva insegnato da fanciullo, non lo so esattamente, nemmeno ora. Io non conoscevo alcuna di quelle parole, e mi si incalzava furiosamente per farmele imparare con minacce e castighi" (Conf. I, 14). Forse è l'unica materia di cui Agostino adulto si rammarica di non aver studiato meglio da bambino, probabilmente per il metodo con cui veniva insegnata. Da Vescovo conosceva certamente tale lingua, ma non la possederà mai perfettamente.

 

I gradi di istruzione ai tempi di Agostino

Nel De ordine (2,12,35 - 13,38) Agostino delinea i tre gradi dell'istruzione al suo tempo. Dalla terza infanzia alla prima adolescenza i fanciulli frequentavano il corso d'istruzione primaria che egli, derivando da La grammatica di Varrone, chiama litterator. Era denominato anche ludimagister. Vi si insegnava a leggere, scrivere e far di conto. Vi si impartivano anche i rudimenti della lingua greca. I metodi, come Agostino stesso attesta, erano ben lontani dall'attivismo della scuola elementare di oggi. Il fatto stesso che il tipo d'insegnamento fosse denominato dall'insegnante, come anche quelli degli altri gradi, sta ad indicare che la russoviana puero-centralità avrebbe suscitato delle matte risate nei padri della così detta cultura occidentale.

Seguiva il corso del grammaticus. Agostino ne deriva le funzioni da La grammatica di Varrone e in parte dalle Istituzioni oratorie di Quintiliano. Vi si insegnavano (e forse anche studiavano) la grammatica nelle tre parti di etimologia, morfologia e sintassi, la letteratura e la storia. Il testo di lettura ufficiale era l'Eneide di Virgilio che commoveva profondamente Agostino fanciullo e ragazzo. Il corso fu in parte da lui seguito a Madaura, l'attuale Mdaourouch.

Il terzo grado d'istruzione, frequentato nella prima giovinezza, era il rhetor. Vi si insegnavano, come dice Agostino, le arti della persuasione (che per Croce quindi non sarebbero arti), cioè la dialettica e la retorica. È costante il riferimento a Cicerone. Egli seguì il corso a Cartagine ed insegnò per circa 12 anni in questo grado dell'istruzione a Cartagine, Roma, Milano. Nei paragrafi successivi a quelli citati si sorpassa il limite in cui rientravano gli statuti dell'istruzione nel mondo romano con riferimenti alle discipline elencate nel settimo libro della Politeia di Platone. Nel tutto si ha un palese delinearsi delle arti del trivio e del quadrivio nel Medioevo.

P. Domenico Gentili

 

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