Un pizzico di rabbia, un poco di mestizia e qualche traccia di delusione. Tutto inserito nel presepe allestito quest’anno nella pontificia parrocchia di Sant’Anna in Vaticano. Il mistero di questo mix è presto svelato: non ci sono edifici, ma un deserto con una tenda e l’immancabile grotta dove nasce Gesù. Perché questa scelta? Cosa avevano in mente gli ideatori e realizzatori di questa rappresentazione della natività? Quale messaggio volevano affidare a questa scena così suggestiva?
Per comprenderlo dobbiamo collocare i tre artisti, Mariano Piampiani, Sandro Brillarelli e Alberto Taborro nel loro contesto quotidiano: la città e il contado di Tolentino. Dall’estate 2016, quando il sisma colpì il centro Italia, molti abitanti della zona sono sfollati o comunque impossibilitati a rientrare nelle loro case perché inagibili. Da qui lo scoraggiamento e l’idea di trasporre nel presepe la loro tristezza. Anche ai tempi di Gesù non andava meglio. La tenda è simbolo di precarietà, di provvisorietà. Ma è anche il luogo teologico in cui Dio si manifesta ed esprime la sua vicinanza all’uomo, come spiega il parroco agostiniano Bruno Silvestrini.
La tenda è il simbolo anche dell’incontro di Dio con l’uomo. Essa rimanda all’episodio biblico della Genesi (18, 1-15) dove Abramo e Sara ricevono nella loro tenda la visita del Signore che si presenta sotto le spoglie di tre viandanti stanchi e affamati per il lungo viaggio nel deserto. Abramo li accoglie nella sua dimora e Dio riconferma al patriarca la promessa di renderlo fecondo e padre di una moltitudine di popoli.
La presenza divina si manifesta anche con l’acqua che sgorga copiosa dalla fontana sovrastata da un angelo e dall’arcobaleno sullo sfondo che ricorda l’eterna alleanza del Signore con l’umanità, confermata una volta per sempre dalla venuta del Figlio sulla terra. Sullo sfondo si alternano, seguendo il ritmo di due cicli, il cielo sereno, l’alba, il tramonto e la notte.
Per la prima volta nel presepe allestito a Sant’Anna appaiono anche delle nuvole all’orizzonte. Vengono prodotte da un meccanismo complesso ideato dai tre artisti. In primo piano la scena della natività con Maria, Giuseppe e Gesù. Su un lato un altro angelo appare maestoso e luminoso a richiamare l’attenzione dei pellegrini sul Bambino appena nato. Gente del popolo si dirige verso quella che è la scena principale, mentre un pastore indugia a tosare una pecora. Un movimento meccanico riproduce proprio il gesto della tosatrice che taglia il folto manto di lana dell’animale.
Non c’è dunque solo la delusione in questa rappresentazione della natività, ma anche la speranza e la voglia di vivere, di ricominciare, come mostrano tutti i personaggi che, intenti nei loro affari, sono chiamati a confrontarsi con la novità che ha sconvolto il mondo, molto più di un terremoto: la venuta del Salvatore.
Nicola Gori, Osservatore Romano 24 dicembre 2017.