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S. Messa nel trigesimo giorno della scomparsa di Mons. PAUL CANART

Il ricordo del cardinale Farina

Città del Vaticano
, 13/10/2017

Venerdì 13 ottobre alle ore 9.30, nella pontificia parrocchia di Sant'Anna in Vaticano, Sua Eminenza il cardinale Raffaele Farina, Bibliotecario emerito, ha presieduto una Santa Messa in suffragio di Mons. Paul Canart già vice-prefetto della Biblioteca apostolica vaticana.

Hanno concelebrato Sua Ecc.za Mons. Bruguès Jean Louis, Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, Mons. Cesare Pasini Prefetto della Biblioteca apostolica vaticana e molti altri officiali della stessa.
hanno animato la liturgia il coro dei giovani della Biblioteca apostolica.
Di seguito si riporta il testo dell'omelia pronunciata dal Cardinale Raffaele Farina e l'omelia dell'allora Cardinale Joseph Ratzinger pronunciata a Monaco di Baviera quattro giorni dopo la scomparsa del Beato Paolo VI, in quanto citato nella suddetta dal cardinale Farina.

Omelia

Cari fratelli e sorelle,

Ho conosciuto Mons. Canart nel Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Lui membro dal 1979 e io dal 1981. Ci eravamo incontrati a Bucarest per il XV Congresso Internazionale di Scienze Storiche, nel 1980, e avevamo fatto amicizia; avevo tenuto una breve relazione, che aveva convinto i membri del Comitato, presenti al Congresso, a cooptarmi nel Comitato di Scienze Storiche, con l’incarico di Segretario. Quando ho finito con l’incarico di Segretario, nel 1989, ci siamo persi di vista; per poi ritrovarci nel 1997, con lui che concludeva il suo incarico di Vice-Prefetto e Direttore del Dipartimento dei manoscritti e io che iniziavo l’incarico di Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana.

Gli inizi del mio incarico in Biblioteca Vaticana non sono stati facili - molti di voi ne sono stati testimoni - ma li ho affrontanti con serenità, perché avevo l’appoggio dei Superiori, ma ancor di più perché avevo un fratello, che mi sosteneva senza farmelo pesare, Paul Canart. Ho ottenuto che prolungasse di un anno tutti gli incarichi che aveva e siamo riusciti ad assumere 25 dei 39 precari, che avrei dovuto licenziare; e a cambiare l’orario settimanale di lavoro, così da risolvere il problema del lavoro straordinario e di aprire la Biblioteca in orario continuato, dal lunedì al venerdì, dalle ore 8 del mattino alle ore 18 del pomeriggio.

Paul Canart era nato a Cuesmes, in Belgio, il 25 ottobre del 1927. Aveva fatto i suoi studi di filosofia e lettere all’Università Cattolica di Lovanio tra il 1944 e il 1953; e il dottorato alla Sorbona nel 1979. - Aveva nel contempo fatti gli studi di Teologia nel Seminario di Malines ed era stato ordinato sacerdote il 1 aprile del 1951. - Per tre anni aveva insegnato in due licei cattolici di Bruxelles, dal 1953 al 1957.

L’anno precedente, nel 1956, monsignor José Ruysschaert, scriptor della Vaticana, a nome del cardinale bibliotecario, Giovanni Mercati, - così ha lasciato scritto Mons. Canart nel 2004 - gli propose il posto di scriptor per i manoscritti greci e gli concesse 24 ore di riflessione. E così Mons. Canart, nel 1957, divenne scriptor graecus della Biblioteca Vaticana. Mons. Ruysschaert fu Vice Prefetto fino al 1984 e, dopo quasi dieci anni di sede vacante, Mons. Canart ne occupò il posto, fu Vice-Prefetto dal 1993 in avanti, fino al 1998.

Mons. Pasini ha scritto, in occasione della morte del nostro amato Mons. Canart un bellissimo articolo, dove dice una cosa importante: Mons. Canart si è fatto da solo. E il risultato è stato eccezionale. Si può dire, approssimativamente che ogni cinque anni pubblicava un volume del Catalogo dei manoscritti che gli era stato affidato, e anche altro, ovviamente. Ricordo il Facsimile del Vat. Gr. 1209 (Codice B), realizzato con la collaborazione dell’Istituto Poligrafico dello Stato e la cura e il commento di Mons. Canart (15 anni di lavoro!). Lo presentammo al Santo Padre Giovanni Paolo II, con molti altri doni e iniziative riguardanti il Giubileo dell’Anno 2000.

Nell’articolo di Mons. Pasini c’è una bellissima foto di Mons. Canart. Si gira verso chi lo chiama per fotografarlo, sorride a chi lo distoglie dal suo lavoro. È un sorriso di benevolenza, quello che rivolge a tutti.

Aveva una serenità di fondo straordinaria, che è stato il segreto del suo successo e del suo comuni- care con gli altri. È stato in molti Consigli, Comitati e Commissioni e, infine, nel governo della Biblioteca, dal 1993 al 1998. Ha occupato finalmente una sedia rimasta vuota per 9 anni, quella di Vice- Prefetto. - È stato spesso, per tempi lunghi, da solo.

Era un buon sacerdote, di una religiosità fortemente interiore, che non disturbava nessuno; gran lavoratore, per senso del dovere, ma anche per appresa efficienza, preparazione scientifica e modello di vita. Molti di noi lo rimpiangeremo!

Cari fratelli e sorelle, vi chiedo ancora qualche minuto di attenzione. Vorrei condividere con voi alcune riflessioni e sentimenti di questa giornata.

Il 31 gennaio del 2015, nella Chiesa di San Girolamo della Carità, a Roma, ho celebrato la Messa dei defunti nell’anniversario della morte del Cardinale Bibliotecario Jorge Maria Mejía. Qualche mese prima di morire (è morto il 9 dicembre 2014), nella Clinica Pio XI a Roma, in una intervista rilasciata al giornalista Andrea Nocini, il Cardinale rispondeva a domande sulla conclusione della nostra vita mortale:
Dove finiremo un giorno, Eminenza, terminato il cammino terreno? - gli chiede il giornalista.
Nelle braccia di Dio, risponde il Cardinale. Quindi, i nostri cari li rivedremo o no? Certamente, risponde il Cardinale.
In che forma? fatti di spirito? Chissà? - risponde il Cardinale - ciascuno avrà la propria identità, non c'è nessun dubbio. E un giorno, quando verrà la resurrezione finale, della quale si parla nel “Credo”, verso la fine, assisteremo anche alla resurrezione del corpo.

Noi anziani, sacerdoti, vescovi e cardinali, siamo curiosi di sapere che cosa ci aspetta nell’immediato aldilà. San Paolo - l’abbiamo sentito nella prima lettura - è abbastanza dettagliato, anche in altre lettere; ma non ci dice tutto. Saremo o no fuori del tempo e dello spazio, in attesa del Giudizio Universale? - è una delle domande che ci facciamo.

Ricorderete certamente che Paolo VI è morto nel giorno della festa della Trasfigurazione: un dono di Dio per lui, come ha fatto capire il card. Ratzinger nell’omelia funebre pronunciata, a Monaco di Baviera, il 10 agosto del 1978, quattro giorni dopo la morte del Papa. La Madonna non è morta, è salita al cielo, come Gesù? Una specie di trasfigurazione?

Nella Chiesa d’oriente, che Paolo VI ha tanto amato, la festa della Trasfigurazione occupa un posto molto speciale. Non è considerata un avvenimento fra i tanti, un dogma tra i dogmi, ma la sintesi di tutto: croce e risurrezione, presente e futuro del creato sono qui riuniti. La festa della Trasfigurazione è garanzia del fatto che il Signore non abbandona il creato. Che non si sfila di dosso il corpo come se fosse una veste e non lascia la storia come se fosse un ruolo teatrale. All’ombra della croce, sappiamo che proprio così il creato va verso la trasfigurazione.

Ripeto qui parole del Card. Ratzinger - Quella che noi indichiamo come trasfigurazione è chiamata, nel greco del Nuovo Testamento, metamorfosi (“trasformazione”); e questo fa emergere un fatto importante: la trasfigurazione non è qualcosa di molto lontano, che in prospettiva può accadere. Nel Cristo trasfigurato si rivela molto di più ciò che è la fede: la fede è trasformazione, che nell’uomo avviene nel corso di tutta la vita.

Dal punto di vista biologico la vita è una metamorfosi, una trasformazione perenne, che si conclude con la morte. Vivere significa morire, significa trasformazione verso la morte.

Il racconto della Trasfigurazione del Signore vi aggiunge qualcosa di nuovo: morire significa risorgere. La fede è una metamorfosi, una trasformazione, nella quale l’uomo matura nel definitivo e diventa maturo per essere definitivo. Per questo l’evangelista Giovanni definisce la croce come glorificazione, fondendo la trasfigurazione e la croce: nell’ultima liberazione da se stessi la metamorfosi della vita giunge al suo traguardo.

Cari fratelli e sorelle,

Nel ricordo del nostro fratello Paolo, ma anche nel ricordo di tutti i nostri cari defunti, i defunti delle nostre famiglie, celebriamo questa nostra messa di suffragio. Ci unisce ai defunti la preghiera e la certezza della risurrezione. L’Eucarestia, che stiamo per celebrare, ne è garanzia.

* * *

Proponiamo un’omelia inedita pronunciata il 10 agosto 1978, quattro giorni dopo la morte di papa Paolo VI, dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nella cattedrale di Monaco di Baviera. Il testo è pubblicato dall’Osservatore Romano a chiusura di uno speciale dedicato al cinquantennale dell’elezione di Montini al Soglio di Pietro, avvenuta il 21 giugno 1963.

Per quindici anni, nella preghiera eucaristica durante la santa messa, abbiamo pronunciato le parole: «Celebriamo in comunione con il tuo servo il nostro Papa Paolo». Dal 7 agosto questa frase rimane vuota. L’unità della Chiesa in quest’ora non ha alcun nome; il suo nome è adesso nel ricordo di coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede e riposano nella pace. Papa Paolo è stato chiamato alla casa del Padre nella sera della festa della Trasfigurazione del Signore, poco dopo avere ascoltato la santa messa e ricevuto i sacramenti. «È bello per noi restare qui» aveva detto Pietro a Gesù sul monte della trasfigurazione. Voleva rimanere. Quello che a lui allora venne negato è stato invece concesso a Paolo VI in questa festa della Trasfigurazione del 1978: non è più dovuto scendere nella quotidianità della storia. È potuto rimanere lì, dove il Signore siede alla mensa per l’eternità con Mosè, Elia e i tanti che giungono da oriente e da occidente, dal settentrione e dal meridione. Il suo cammino terreno si è concluso. Nella Chiesa d’oriente, che Paolo VI ha tanto amato, la festa della Trasfigurazione occupa un posto molto speciale. Non è considerata un avvenimento fra i tanti, un dogma tra i dogmi, ma la sintesi di tutto: croce e risurrezione, presente e futuro del creato sono qui riuniti. La festa della Trasfigurazione è garanzia del fatto che il Signore non abbandona il creato. Che non si sfila di dosso il corpo come se fosse una veste e non lascia la storia come se fosse un ruolo teatrale. All’ombra della croce, sappiamo che proprio così il creato va verso la trasfigurazione.

Quella che noi indichiamo come trasfigurazione è chiamata nel greco del Nuovo Testamento metamorfosi (“trasformazione”), e questo fa emergere un fatto importante: la trasfigurazione non è qualcosa di molto lontano, che in prospettiva può accadere. Nel Cristo trasfigurato si rivela molto di più ciò che è la fede: trasformazione, che nell’uomo avviene nel corso di tutta la vita. Dal punto di vista biologico la vita è una metamorfosi, una trasformazione perenne che si conclude con la morte. Vivere significa morire, significa metamorfosi verso la morte. Il racconto della trasfigurazione del Signore vi aggiunge qualcosa di nuovo: morire significa risorgere. La fede è una metamorfosi, nella quale l’uomo matura nel definitivo e diventa maturo per essere definitivo. Per questo l’evangelista Giovanni definisce la croce come glorificazione, fondendo la trasfigurazione e la croce: nell’ultima liberazione da se stessi la metamorfosi della vita giunge al suo traguardo.

La trasfigurazione promessa dalla fede come metamorfosi dell’uomo è anzitutto cammino di purificazione, cammino di sofferenza. Paolo VI ha accettato il suo servizio papale sempre più come metamorfosi della fede nella sofferenza. Le ultime parole del Signore risorto a Pietro, dopo averlo costituito pastore del suo gregge, sono state: «Quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Giovanni, 21, 18). Era un accenno alla croce che attendeva Pietro alla fine del suo cammino. Era, in generale, un accenno alla natura di questo servizio. Paolo VI si è lasciato portare sempre più dove umanamente, da solo, non voleva andare. Sempre più il pontificato ha significato per lui farsi cingere la veste da un altro ed essere inchiodato alla croce. Sappiamo che prima del suo settantacinquesimo compleanno, e anche prima dell’ottantesimo, ha lottato intensamente con l’idea di ritirarsi. E possiamo immaginare quanto debba essere pesante il pensiero di non poter più appartenere a se stessi. Di non avere più un momento privato. Di essere incatenati fino all’ultimo, con il proprio corpo che cede, a un compito che esige, giorno dopo giorno, il pieno e vivo impiego di tutte le forze di un uomo. «Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore» (Romani, 14, 7-8). Queste parole della lettura di oggi hanno letteralmente segnato la sua vita. Egli ha dato nuovo valore all’autorità come servizio, portandola come una sofferenza. Non provava alcun piacere nel potere, nella posizione, nella carriera riuscita; e proprio per questo, essendo l’autorità un incarico sopportato — «ti porterà dove tu non vuoi» — essa è diventata grande e credibile.

Paolo VI ha svolto il suo servizio per fede. Da questo derivavano sia la sua fermezza sia la sua disponibilità al compromesso. Per entrambe ha dovuto accettare critiche, e anche in alcuni commenti dopo la sua morte non è mancato il cattivo gusto. Ma un Papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede. È per questo che in molte occasioni ha cercato il compromesso: la fede lascia molto di aperto, offre un ampio spettro di decisioni, impone come parametro l’amore, che si sente in obbligo verso il tutto e quindi impone molto rispetto. Per questo ha potuto essere inflessibile e deciso quando la posta in gioco era la tradizione essenziale della Chiesa. In lui questa durezza non derivava dall’insensibilità di colui il cui cammino viene dettato dal piacere del potere e dal disprezzo delle persone, ma dalla profondità della fede, che lo ha reso capace di sopportare le opposizioni.

Paolo VI era, nel profondo, un Papa spirituale, un uomo di fede. Non a torto un giornale lo ha definito il diplomatico che si è lasciato alle spalle la diplomazia. Nel corso della sua carriera curiale aveva imparato a dominare in modo virtuoso gli strumenti della diplomazia. Ma questi sono passati sempre più in secondo piano nella metamorfosi della fede alla quale si è sottoposto. Nell’intimo ha trovato sempre più il proprio cammino semplicemente nella chiamata della fede, nella preghiera, nell’incontro con Gesù Cristo. In tal modo è diventato sempre più un uomo di bontà profonda, pura e matura. Chi lo ha incontrato negli ultimi anni ha potuto sperimentare in modo diretto la straordinaria metamorfosi della fede, la sua forza trasfigurante. Si poteva vedere quanto l’uomo, che per sua natura era un intellettuale, si consegnava giorno dopo giorno a Cristo, come si lasciava cambiare, trasformare, purificare da lui, e come ciò lo rendeva sempre più libero, sempre più profondo, sempre più buono, perspicace e semplice.

La fede è una morte, ma è anche una metamorfosi per entrare nella vita autentica, verso la trasfigurazione. In Papa Paolo si poteva osservare tutto ciò. La fede gli ha dato coraggio. La fede gli ha dato bontà. E in lui era anche chiaro che la fede convinta non chiude, ma apre. Alla fine, la nostra memoria conserva l’immagine di un uomo che tende le mani. È stato il primo Papa a essersi recato in tutti i continenti, fissando così un itinerario dello Spirito, che ha avuto inizio a Gerusalemme, fulcro dell’incontro e della separazione delle tre grandi religioni monoteistiche; poi il viaggio alle Nazioni Unite, il cammino fino a Ginevra, l’incontro con la più grande cultura religiosa non monoteista dell’umanità, l’India, e il pellegrinaggio presso i popoli che soffrono dell’America Latina, dell’Africa, dell’Asia. La fede tende le mani. Il suo segno non è il pugno, ma la mano aperta.

Nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia è scritta la meravigliosa frase: «È bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in lui» (ii, 2). Il vescovo martire la scrisse durante il viaggio da oriente verso la terra in cui tramonta il sole, l’occidente. Lì, nel tramonto del martirio, sperava di ricevere il sorgere dell’eternità. Il cammino di Paolo VI è diventato, anno dopo anno, un viaggio sempre più consapevole di testimonianza sopportata, un viaggio nel tramonto della morte, che lo ha chiamato a sé nel giorno della Trasfigurazione del Signore. Affidiamo la sua anima con fiducia nelle mani dell’eterna misericordia di Dio affinché egli diventi per lui aurora di vita eterna. Lasciamo che il suo esempio sia un appello e porti frutto nella nostra anima. E preghiamo affinché il Signore ci mandi ancora un Papa che adempia di nuovo il mandato originario del Signore a Pietro: «Conferma i tuoi fratelli» (Luca, 22, 32).