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Informazioni e aggiornamenti dalla Parrocchia e dalla Chiesa

Conferenza di P. Mario Mattei per i “Mercoledì Culturali” su Bartolomeo Menochio.

Un agostiniano al servizio del Papa nella bufera napoleonica.

Chiesa di Sant'Anna
, 07/01/2015

  1. Mi sono imbattuto per la prima volta con il Venerabile Menochio quando ero ancora giovane seminarista e vi confesso che il primo incontro non è stato molto cordiale. Mi sembrava strano che un personaggio del suo rango, quantunque schivo e profondamente umile, non avesse avuto un riconoscimento adeguato dal mondo ecclesiastico e dagli storici. Forse - pensavo - era considerato uno sconfitto, e come si sa, la storia la scrivono sempre i vincitori.

   Forse a causa della mia superficialità legata all’età, forse a causa del rigore freddo con cui P. Agostino Vita ha pubblicato i documenti che lo riguardavano, fatto sta che ho abbandonato presto l’interesse verso la sua figura. Solo da qualche anno ho ripreso in mano la sua vicenda terrena.

Oggi posso dire che prima di tutto mi colpisce l’analogia tra lui e Sant’Agostino. Quando nel 410 Roma cadde nelle mani dei Visigoti, per gli uomini di allora questo fu un fatto sconvolgente. Il senso di smarrimento che colpì tutti è ben espresso da San Girolamo: “Se Roma può cadere, che cosa può esservi di sicuro?”. Diverso fu l’atteggiamento di Agostino, perchè lesse in quegli avvenimenti lo svolgersi nascosto della storia della salvezza. Annotava infatti che il tempo rende precarie e dissolve tutte le cose, ma l’esperienza della fede insegna che occorre costruire nel tempo ciò che non ha fine, la città di Dio, appunto.

Il tempo del Menochio è segnato da sconvolgimenti - se vogliamo - ancora maggiori per un cristiano. Il papa Pio VI, nel 1799, era stato deportato in Francia, dove era morto in stato di prigionia. Durante il Pontificato di Pio VII, la maggior parte delle diocesi è privata dei suoi vescovi, molti preti sono al confino, le case religiose non esistono più.

   Sembra che Napoleone abbia detto al cardinal Consalvi che era sua intenzione distruggere la Chiesa. Vero o no, Napoleone nei fatti si comportò comunque di conseguenza e sembrava ormai esserci riuscito.

Come reagisce il Menochio agli sconvolgimenti del suo tempo? Il suo punto fermo sembra essere nella certezza che le forze del male non prevarranno. Vive da agostiniano e porta la tonaca, per quanto sia stata proibita, e non fa il giuramento di fedeltà a Napoleone: attraversa le difficoltà con la serena certezza che il male è già vinto. Non si ritira nel privato, ma ha una vita pastorale intensa, pur in mezzo a mille difficoltà. Costruisce senza un attimo di sosta la città Dio, quella città che il tempo non può dissolvere.

Scrive a un monastero di monache:

Nelle persecuzioni la Chiesa ha sempre guadagnato e le persecuzioni dei suoi ministri e la desolazione della medesima l'han mantenuta nella purità dei dogmi e nella santità del suo Spirito. Basta solo riflettere che questa Chiesa è stata fondata da Gesù e Gesù per far questo ha faticato, patito ed è morto. Per cui una sposa che gli è costata così tanto, non l'abbandona e non l'abbandonerà mai. E se ci sono ministri e figli, deboli o infedeli, questo servirà per provare sempre più la fermezza e la verità della dottrina della Chiesa. Onde voi siate pur costanti e ferme nell’esser vere figlie di questa Sposa di Gesù, di questa Chiesa santa, fino al sacrificio di voi stesse, della vostra vita e al versamento del vostro sangue, quando così voglia Gesù. (D. VIII, 18)

Il suo portamento imponeva rispetto ai suoi nemici e benchè fosse irriso come “fanatico e taumaturgo”, e ci fosse l’ordine di arrestarlo, tuttavia mai nessuno osò alzare le mani contro di lui.

 

2. Certamente, fin dai primi anni del suo sacerdozio, il Menochio era consapevole della drammaticità della situazione sociale e religiosa del suo tempo. L’abbandono della carriera accademica per la predicazione dice abbastanza chiaramente come avesse la percezione del bisogno di una evangelizzazione più incisiva tra il popolo di Dio.

Due fatti segnano la svolta della sua vita.

Il primo è un fatto apparentemente banale: un incidente di caccia l’anno prima dell’Ordinazione. Questo sport, praticato nel passato perfino dai papi, a quei tempi non faceva ancora problema. Al nostro Venerabile esplode il fucile e miracolosamente ne esce indenne, solo gli rimarranno sul viso per parecchio tempo i segni della polvere da sparo. Ma i segni più profondi rimarranno nel suo animo, perché fu un grosso scossone spirituale.

   Il secondo arriva nel 1771 con la nomina a parroco a Castelfidardo. Anche se aveva profuso ogni sforzo nello studio, capiva che la sua vocazione era quella di pastore d’anime e non quella di professore di teologia.

L’esperienza di parroco fa maturare in lui la passione per l’apostolato e capisce con sempre più chiarezza che c’è bisogno di valenti predicatori a supporto di una pastorale stanca e inefficace.

Quando agli inizi del 1774 gli giunge la nomina a Predicatore Generale inizia per lui una attività apostolica senza sosta, che lo porterà a predicare in ogni parte d’Italia, nelle grandi città e nei piccoli paesi, nelle cattedrali o nelle chiese di campagna, senza distinzione. E a questo compito unirà, come è quasi logico, la cura di molti monasteri femminili.

Il successo della sua predicazione era certamente dovuto alla sua preparazione, al suo porgere la parola di Dio con tono pacato e suadente - come dicono molti testimoni -, ma soprattutto dal fatto che le parole erano forgiate da una intensa vita spirituale ed erano spesso accompagnate da fatti prodigiosi di conversioni e guarigioni,

Furono queste considerazioni, insieme all’affetto e alla venerazione che aveva per lui, che spinsero mons. Francesco D’Este, vescovo di Reggio Emilia, a giocare tutte le carte per avere il Menochio come suo ausiliare. Così, nel concistoro del 18 dicembre 1795, Pio VI lo nominò vescovo titolare di Ippona e ausiliare del vescovo di Reggio Emilia.

L’anno dopo però è espulso da Reggio ed è costretto a portarsi nelle Marche, ad Ancona, dove si dedica anima e corpo al ministero episcopale nelle diocesi che non hanno più il loro vescovo: tiene ordinazioni, consacra chiese, conferisce cresime, predica e confessa. Ma la sua persona, come abbiamo già detto, impone rispetto e nessuno dei suoi avversari osa fermarlo.

 

3. Dopo la morte di Pio VI il 1 dicembre 1799 a Venezia inizia il conclave. Il Menochio vi partecipa come Sacrista Pontificio.

L’elezione di Pio VII segna ancora una svolta nella sua vita.

Anche il Papa, come era già successo con il vescovo di Reggio, rimane colpito da questo uomo dall’intensa vita spirituale ed apostolica. Così lo vuole accanto a sé, non solo come Sacrista, ma anche come suo Confessore.

Inizia in questo modo un connubio che durerà quasi 25 anni, cioè fino alla morte, che colpirà ambedue nel 1823 a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro.

A questo punto s’impone una terza riflessione, che evidenzia la particolare vocazione alla quale Dio chiamò il nostro Venerabile. Mi riferisco ai cinque anni passati da solo nei sacri palazzi del Quirinale.

Nell’estate del 1809 Pio VII è condotto prigioniero in Francia. Dai documenti in nostro possesso risulta che anche il Menochio avrebbe dovuto seguire le sorti del Papa. Invece, incredibilmente, l’ordine di Napoleone non viene eseguito e il nostro Venerabile rimane da solo nel palazzo papale, come una sentinella. Sembra aleggiare in questo fatto il brano evangelico in cui il Signore invita ad essere vigilanti:

 “Siate come quei servi che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per essere pronti ad aprirgli appena arriva e bussa” (Lc 12,35-38).

Sembra inverosimile e paradossale che quest’uomo abbia avuto il compito di rappresentare il Papa in un momento così tragico: unica sentinella in quello che era senza dubbio un desolato campo di battaglia.

Non solo.

Aveva la faccia tosta di girare per Roma, vestito da frate, e presiedere ordinazioni, celebrare cresime, confessare.

E il tempo libero? Scriveva lettere ai suoi penitenti e faceva direzione spirituale con la penna in mano.

Sarebbe da non credere, se non fosse storicamente accertato.

 

4. Abbiamo già detto che il Menochio dimostrò sempre una cura particolare verso le suore. La formazione ricevuta nell’Ordine agostiniano gli dava certamente una sensibilità tale per cui la sua esperienza e la sua guida spirituale erano apprezzate e ricercate.

In questo contesto si lega la fondazione delle Monache Adoratrici Perpetue del SS. Sacramento.

Purtroppo solo recentemente sono venuto a conoscenza del fatto che il Menochio abbia lasciato l’impronta della sua spiritualità in questo nuovo Ordine monastico, fino ad esprimerne una sorprendente paternità.

Non ho quindi potuto approfondire questa vicenda e pertanto, pur correndo il rischio di qualche imprecisione, delineo per sommi capi la storia del rapporto tra il Menochio e la fondatrice, la beata Maria Maddalena dell'Incarnazione.

Con il permesso di Pio VII, il 31 maggio 1807 Maria Maddalena dell'Incarnazione e tre sue consorelle, monache francescane nel Monastero di Ischia di Castro (Viterbo), lasciarono quella Comunità per fare il loro ingresso nel convento dei Santi Gioacchino e Anna alle Quattro Fontane in Roma, da poco lasciato e messo in vendita dai Padri Carmelitani Scalzi di Spagna. Esse vi si trasferirono dopo aver dimorato per qualche mese nella Via in Selci, nel luogo dove oggi sono le monache agostiniane di S. Lucia.

A questo punto entra in gioco il Menochio. Infatti, proprio alle esperte e prudenti cure del nostro Venerabile, Pio VII volle affidare la nascente fondazione.

La beata Maria Maddalena dell'Incarnazione aveva dato vita a una congregazione monastica che si dedicasse unicamente all'adorazione del santissimo sacramento e quindi le sue monache erano chiamate Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento o, dette popolarmente anche Sacramentine.

La stessa Suor Maria Maddalena dell'Incarnazione aveva redatto le Costituzioni che vennero approvate dal pontefice il 2 febbraio 1808.

Lo stesso anno, però, i francesi occuparono Roma e sciolsero le comunità religiose, compresa quella della nostra beata, che dovette riparare in Toscana.

Comunque sappiamo che il Menochio prese a cuore la nuova istituzione e continuò a offrire il suo appoggio alla Madre Fondatrice anche durante l’esilio toscano e si prodigò per il suo ritorno a Roma perché fosse possibile rifondare l’Istituto.

Caduto Napoleone, il 31 maggio 1814 suor Maria Maddalena dell'Incarnazione ritornò a Roma con un gruppo di nuove compagne e si stabilì nella chiesa di Sant'Anna al Quirinale.

I primi passi della nuova Congregazione furono segnati da difficoltà interne ed esterne, ma i fatti che si succedevano, dicevano chiaramente che il Signore stava benedicendo questa fondazione con il fiorire di nuove vocazioni e con numerosi frutti di santità.

Intanto il Menochio, che continuava ad avere un interesse cordiale e fattivo verso la Madre fondatrice e le sue consorelle, nell’udienza a lui concessa il 5 giugno del 1817, fu nominato Superiore della Fondazione dall’anziano e stanco pontefice, affinché vigilasse con attenzione e amore, ma anche perché fosse un valido sotegno alla nuova Fondazione.

La decisione papale aveva certamente lo scopo di parare i colpi che provenivano da una parte del mondo ecclesiastico contrario alla nascita delle Adoratrici e nello stesso tempo fare da collante a quelle forze centrifughe che in ogni nuova fondazione vengono sempre a galla. Infatti, tra le opposizioni va annoverata soprattutto quella del card. Annibale Della Genga, vicario di Roma e futuro papa Leone XII, che vedeva con un certo sospetto la nuova fondazione.

La scelta del Menochio fu felicissima perchè, avuto l’incarico papale, si mise al lavoro, iniziando un’opera paziente e amorevole per dare al nuovo Istituto non solo una buona legislazione, ma anche una solida formazione nello spirito della Regola agostiniana.

In quest’opera il nostro Venerabile, da buon agostiniano, non agì da solo, ma coinvolse diverse persone, una in particolare: Sr. M. Clotilde, poi divenuta M. Giuseppa dei SS. Cuori. Tra queste due persone di profonda spiritualità e di vita santa nacque una felice e profonda intesa.

Mi sia permesso di dire che, se a suor Maria Maddalena dell'Incarnazione sono stati concessi gli onori dell’altare come fondatrice, il Menochio e Madre Giuseppa si possono considerare coloro che, nel nascondimento e nel silenzio, hanno plasmato la vita e la spiritualità della prima generazione delle Adoratrici.

Il Menochio seppe trasmettere e coniugare lo spirito della Regola Agostiniana con il carisma monastico della Adorazione perpetua. Ma seppe anche plasmare, intervenire, prevenire, correggere; in una parola coltivare questo piccolo seme che il Signore aveva piantato.

Così venne accettata definitivamente la Regola di S. Agostino, la quale si legava meglio con lo stile monastico e il carisma dell’Istituto.

Le prime Costituzioni vennero riviste perché espimessero appieno lo spirito della Regola e la spiritualità agostiniana.

L’istituto assunse poi un abito proprio, approvato dallo stesso pontefice: tonaca bianca, velo nero e scapolare rosso con un ostensorio bianco ricamato sul petto, e una cappa bianca come cocolla corale.

La beata moriva nel 1824, a meno di un un anno di distanza da Pio VII e dal Menochio.

In pochi mesi, privato dei legittimi Pastori (Pio VII e Menocchio), e della Fondatrice, il nascente Ordine continuò sotto la sicura guida della Madre Giuseppa, della quale abbiamo oggi celebrato la chiusura della fase diocesana del Processo di Beatificazione.

Con la Beatificazione, già avvenuta, della M. Maddalena (il 3 maggio 2008) e con la festa odierna, noi tutti celebriamo con gratitudine la perenne e attuale freschezza del carisma agostiniano, che attraverso la Regola, in ogni tempo dona frutti sempre nuovi alla S. Chiesa di Cristo.

P. Mario Mattei